Quando sono partita per Bali ero carica di aspettative che, come vi raccontavo qui, sono state prontamente deluse ma che, per fortuna, sono state ampiamente soddisfatte da un’altra isola, di cui non dirò il nome per i motivi spiegati qui.
È un’isola che, se siete a Bali, non vi sarà difficile trovare, e che vi invito a cercare se come me scegliete per i vostri viaggi che vi aiutino a riconnettervi con la vostra parte più selvaggia e spirituale.
Qui ho passato una settimana persa tra la giungla, i templi e le spiagge ricordandomi a malapena del resto del mondo, sfrecciando in motorino su alcune delle strade più malandate che abbia mai visto, con un sorriso ebete e incredulo perennemente sulle labbra e quasi sempre lo stesso vestito addosso, rischiando la vita più o meno quotidianamente.
Nell’isola senza nome infatti la sicurezza non è certo una priorità: le strade a strapiombo sul mare o sulla giungla, piene di curve a gomito, sono senza guard rail, piene di buche al centro e ai lati e larghe quanto una corsia e mezzo, ma sono a doppio senso e peraltro le macchine guidano perennemente in mezzo alla strada, se di guidare possiamo parlare considerato che mi è capitato di vederne una che prendeva la rincorsa in retromarcia per fare una salita.
Non importa se tu stai arrivando in motorino nel senso opposto e rischi di sfracellarti sul cofano del guidatore di turno, lui va, suonando il clacson per passatempo, e tu devi essere capace di guidare piuttosto bene se non vuoi finire come i molti turisti americani o australiani pieni di croste, segno inequivocabile delle molte cadute riportate qui.
Nell’isola senza nome ogni cosa richiede qualche sforzo o mirabolante impresa: per vedere i templi devi infilarti in minuscole fenditure nella roccia o percorrere strette scalinate a strapiombo sul mare, per fare snorkeling devi sfidare le onde e le correnti dell’oceano indiano su barche minuscole, per mangiare nel ristorante più bello devi inoltrarti nella giungla, per raggiungere le spiagge più spettacolari devi arrampicarti su centinaia di scalini scavati nella roccia.
Ma ogni cosa, qui, è un premio dal valore inestimabile.
Se lasci che il canto dei galli ti svegli prima dell’alba puoi ammirare uno spettacolare sole rosso che sorge, le colline folte di giungla da una parte, l’oceano dall’altra, la sagoma dell’Agung sfumata sullo sfondo.
Se fai un giro in motorino la sera, quando ormai è buio e tutti sono tornati a casa, puoi inebriarti col profumo dell’incenso che si leva in spesse volute dalle offerte per gli dei disposte ovunque in mezzo alla strada e fermarti in qualche minuscolo vicolo con il naso all’insù, per ammirare il cielo trapunto di un miliardo di stelle in un silenzio interrotto solo dai versi di animali sconosciuti.
Se percorri le scalinate di arenaria, con la montagna che si chiude sopra di te e i pezzi di strada a strapiombo sul mare senza corde a cui aggrapparsi, puoi raggiungere spiagge deserte e incontaminate, battute da correnti così forti che rendono evidente la presenza degli dei del mare, che non vanno certo sfidati nuotando ma possono solo essere contemplati.
Se sfidi le correnti dell’oceano puoi nuotare con le maestose Mante Ray, creature di oltre due metri che si avvicineranno gioiose a giocare con te, e vedere pesci e coralli di colori inimmaginabili, non ancora uccisi dal surriscaldamento delle acque o dal numero eccessivo di sub.
Se ti impegni a cercarli nel folto della giungla, traballando per un po’su strade sterrate, trovi ristoranti meravigliosi costruiti sugli alberi da cui ammirare il tramonto mentre bevi un cocco fresco a lume di candela.
Qui è dove, nell’umidità di un tempio costruito dentro una grotta immensa o bagnati dalle cascate di un tempio costruito sul mare, mentre guardi le onde dell’oceano battere furioso le rocce immediatamente davanti alla fonte sacra in cui sei immersa, diventa chiarissimo quello che mi ha detto un sacerdote di qui quando gli ho chiesto se il tempio in cui ci trovavamo fosse dedicato a un dio solo o a più dei: “There is only one god. It has many faces.”